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NOA PANE

ARTISTS

 

Compression 3, 2016, gomma, aria, ginghie, 130x110x100 cm
Untitled 3, balloons, cage, pump audience 1_edited
House, alfacar, rubber, air_2017_4x3x3mt_edited

NOA PANE

Il lavoro di Noa è difficile da raccontare. Non è sufficiente elencare una sequenza di “oggetto, forma contenuto” in una distratta analisi percettiva, anzi, a prima vista si rileva quasi un “rumore di fondo”, una presenza familiare ma con un riflesso di inquietudine, di tensione.

Poi lo si affronta, sì, dobbiamo affrontarlo, giocarci, sì come una prova da luna park e cambiamo la forma, deformiamo la sua natura e incalziamo la sua sghemba metamorfosi.

 

Difficile, sì. Perché l’azione è meccanica e impulsiva, i materiali sono comuni e la reazione è provocatoria, anzi divertente.

 

Così ho scoperto un “art act” che mi ha conquistato, così come i giurati e il pubblico della prima esposizione del Premio 1502 Biennale dedicato ai giovani del territorio romagnolo. 

 

 

  • - Ho sempre avuto qualche dubbio sulle “interazioni” tra pubblico e opere d’arte, le trovo spesso egoriferite e teatrali a cui faccio fatica associare esperienze o messaggi di una qualchè utilità. 

  • - “Untitled 3” si è rivelato un “meccanismo” perfetto, dove in pochi gesti mi trasformo da artefice a carnefice”; gonfio il palloncino di  gomma che di deforma, sguscia dalla gabbia ma appena lo lascio solo, si adatta (o ritorna) ad una forma più comoda alla sua struttura (anima?). Qualè il filo conduttore della tua ricerca?

 

 

Ho iniziato a lavorare in questa direzione in occasione di un workshop sulla scultura del tufo a Matera.

Ricordo che durante la visita alla città vecchia  sono rimasta colpita da due aspetti: i due fori da cui entrava la luce nelle vecchie abitazioni e una sensazione di vuoto. 

Da quel momento quel vuoto è diventato uno spazio da riempire. 

Così ho semplicemente provato nuove declinazioni dello stesso sistema, incuriosita dall’osservare come elementi diversi trovassero un equilibrio tra loro. 

Un equilibrio effimero appunto, per tornare al tema del concorso.  

Ed è forse questo stato di tensione creato dalle differenze fisiche dei materiali una delle connessioni che si avverte più forte, o almeno credo. 

Il pubblico ha spesso dimostrato grande interesse nel toccare l’opera ed entrarci fisicamente in contatto. Ho pensato che avrei potuto semplificare l’azione e condividerla con il fruitore. Untitled 3, è quindi un tentativo di stimolare la partecipazione del singolo in un’azione comune.  Mi piace che non ci sia quel senso di rispetto, di intoccabilità, di lontananza dall’opera, e nemmeno il senso di colpa nel danneggiarla, ma piuttosto la responsabilità di  prendere una decisione e agire.

 

 

 

  • - Come elabori il percorso dall’incipit alla realizzazione? Trovo molto sofisticato l’idea di base molto “sottile e concettuale” espressa con materiali come gomma e tronchi, grezzi, pesanti, industriali “rude” …  

  • -

Nei laboratori dell’ Accademia di Belle arti di Urbino ho avuto a disposizione ogni sorta di materiale tradizionalmente usato per la scultura. Ho scelto tra questi quelli che descrivevano più chiaramente un contrasto. Un materiale inconsistente ma suscettibile alla pressione come l’aria e l’elasticità della gomma in contrapposizione con il peso e una forte presenza fisica del ferro, legno o pietra.

 

I percorsi che portano alla realizzazione dell’opera possono essere diversi, ma una delle cose che più mi interessa è interagire con lo spazio. Osservare i materiali e l’architettura che ho a disposizione e tentare di realizzare qualcosa che possa in qualche modo modificarne la percezione. In questo processo il sopralluogo, vivere lo spazio, entrare in contatto con la comunità locale è un aspetto molto importante per me.

Negli ultimi mesi ho avuto l’occasione di spostarmi per studio e lavoro tra Inghilterra e Germania, conoscere nuovi contesti e nuove urgenze. Per questo il mio interesse, pur mantenendo una coerenza con i precedenti esperimenti si sta spostando verso altre soluzioni.

 

 

  • - Tra i tuoi lavori, soprattutto quelli di grandi dimensioni una costante è la fusione di attivo e percettivo (l’immateriale che riempie un vuoto, il vuoto che si sostituisce spazio) e la tensione che emerge da questi bizzarri blob* è molto intensa.

Hai teorizzato di arrivare ad un limite? …  riferito all’opera o a chi ne usufruisce? 

 

 

Non è qualcosa che programmo, è un normale processo. Grazie alle critiche, allo studio, al rapporto con contesti differenti, il lavoro acquisisce e perde continuamente sfumature. L’ultimo esperimento, presentato al concorso, è stato appunto quello di lasciare al pubblico la scelta di ricostruire l’opera. Vorrei continuare a lavorare in questa direzione, rendendo il visitatore ancora più partecipe al processo e all’azione, costruendo invece che singole opere uno spazio di condivisione di esperienze.

 

 

 

  • - Vorrei azzardare anche un altro aspetto del tuo lavoro. Presa coscienza della “società liquida” mi piace pensare ai tuoi lavori performativi nell’evoluzione in “società elastica”.

C’è una scena di Brazil (un vecchio film di Terry Gilliam 1982) dove una vecchia signora a causa dei troppi interventi di lifting, si vede trasformare il viso in una grottesca maschera gommosa che si deforma tirando la pelle a piacimento.

Oggi la percezione del corpo è completamente manipolabile, visivamente è possibile da qualsiasi mezzo tecnologico, l’identità invece spesso si schiaccia devianze come la chirurgia massiva o complicati rapporti con il cibo. 

Il vuoto è presente e attivo e la pelle/gomma può essere un confine ultimo?   

 

 

Non so se la gomma può essere un confine ultimo, di sicuro è un elemento che permette cambiamenti di forma. Ed è questo aspetto transitorio che m’incuriosisce.

Il nostro corpo è per sua natura in continua mutazione e la gomma in qualche modo lo emula molto bene. Nella performance a cui ti riferisci, I am not Inflatable, (2015), (realizzata in collaborazione con  Massimo Vitangeli, Zhou Yi, Dario Picariello, Miriam Pascale e Alessandra di Sante), la modella è totalmente vestita da un intreccio di camere d’aria connesse a delle pompe di bicicletta. Il pubblico è invitato a partecipare, scegliendo quale parte del corpo gonfiare e in una sorta di dinamica collettiva ad esercitare il proprio potere sull’altro. 

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